Di fronte alla malattia mentale cerco sempre di orientarmi secondo un modello bio-psico-sociale, che si pone come modello di riferimento nel tentativo di superare antiche dicotomie (biologico/psicologico; natura/cultura; farmaco/psicoterapia), ipotizzando un reciproco condizionamento e una costante interazione tra i vari livelli tanto che, alla fine, gli stessi confini arbitrariamente tracciati appaiono sfumati e confusi. Come, in che misura e attraverso quali meccanismi gli aspetti relazionali possano influire e modificare il substrato biologico dell'individuo che, a sua volta, può essere condizionante per la stessa vita relazionale, non è del tutto chiaro, almeno per chi scrive, e probabilmente l'affannosa ricerca di una verità rischierebbe di rappresentare l'ennesimo disperato tentativo di ridurre e semplificare ciò che, per sua natura, non può essere né ridotto né semplificato.
Sulla base di queste premesse, il mio intervento terapeutico tenderà ad orientarsi ora su un piano ora su un altro, o su tutti i piani contemporaneamente, nella consapevolezza che il mio specifico operare su un determinato livello avrà delle influenze anche sugli altri livelli e a sua volta ne sarà influenzato. Con la somministrazione di un farmaco, ad esempio, non si interagisce solo con l'aspetto biologico del problema ma si innescano una serie infinita di processi e di fantasie anche sul piano intrapsichico e della relazione che finiscono inevitabilmente col condizionare il farmaco stesso, nella sua dimensione più strettamente biologica ( se prendo il farmaco sono più malato, se prendo il farmaco sono più dipendente, se prendo il farmaco vuol dire che da solo non ce la posso fare, se è il farmaco che mi guarisce allora io non valgo niente, se prende il farmaco allora io-madre, io-moglie, io-sorella non c'entro niente, non posso essere d'aiuto, non ho risorse, ma è il farmaco che mi sta aiutando o la psicoterapia, cosa succede quando smetto di prenderlo…).
Credo che ciascuno di questi livelli, biologico, psicologico e sociale, rappresenti una sorta di chiave d'ingresso preferenziale al sistema e che orientarsi su un livello, piuttosto che su un altro ( sulla base dell'esperienza, dei vissuti e delle percezioni profonde che la relazione con l'altro ti suscita), comporti inevitabilmente una scelta per il terapeuta e, di conseguenza, delle grosse responsabilità sia sul piano professionale che su quello umano. Quanti farmaci prescritti, superflui e dannosi, e quante psicoterapie che si protraggono ostinatamente nel tempo, inutili e penose, sulla base di scelte delle quali, spesso, rischiamo di rimanere prigionieri all'interno di un processo che tende ad autoconvalidarsi all'infinito ( ho recentemente conosciuto una paziente nel reparto di Oncologia che l'anno scorso, rivoltasi ad uno psichiatra per un problema di svogliatezza, stanchezza e abbassamento del tono dell'umore venne sottoposta per mesi ad una psicoterapia di coppia e ad una terapia anti-depressiva, salvo poi scoprire, con un anno di ritardo, che il suo era il quadro sintomatico di esordio, molto frequente tra le altre cose, di una neoplasia del colon. Una parentesi che non vuole essere in alcun modo una critica nei confronti di un collega, probabilmente avrei fatto lo stesso errore, ma che vuole sottolineare le enormi responsabilità professionali ed umane che le scelte terapeutiche comportano in un campo tanto complesso come quello del disagio mentale).
Sempre a proposito di modelli di riferimento, sono profondamente convinto che ogni sistema umano sia naturalmente dotato di capacità autopoietiche e autoriparative. E allora gli psicoterapeuti che esistono a fare. Credo che la relazione terapeutica debba avere fondamentalmente un significato perturbatorio, finalizzato a favorire quella che dovrebbe essere l'evoluzione spontanea del sistema. Il "growth factor" direbbe Haley, vale a dire quel fattore di automaturazione spontanea che esiste in ogni paziente ( ma io aggiungerei in ogni sistema che interagisce a qualche livello col paziente). L'evoluzione in quanto spontanea non è costante e continua nel tempo ( e quindi non è neanche del tutto prevedibile), e questo caratteristica tende a riproporsi non solo nei momenti di crisi o di stallo del sistema ma anche all'interno dello stesso processo terapeutico.
Il sistema terapeutico deve essere il più ricco possibile di informazioni ( informazioni raccolte e informazioni proposte), cioè di un numero via via crescente di alternative (agibili e condivisibili dall'intero sistema) e di potenzialità evolutive per tutti i membri che ne fanno parte, terapeuta incluso. In questo senso cerco di portare avanti una terapia coinvolgendo tutti i sistemi che mi sembrano strategicamente più rilevanti sul piano relazionale, a seconda della fase del processo terapeutico, partner, figli, famiglia nucleare, famiglia allargata, amici, cioè tutte quelle persone che possono offrire nuove informazioni e offrire degli spunti trasformativi sul piano reale e concreto. In alcuni casi, posso ritenere valido, già di per sé, lo spazio interattivo della relazione col paziente, a condizione che tale spazio sia sufficientemente creativo da permettere ai partecipanti di costruire e condividere, su un piano puramente simbolico, un processo potenzialmente trasformativo. Credo che la costruzione di una relazione sia un intervento che in qualche maniera agisce anche sul mondo intrapsichico del paziente. Nel senso che le caratteristiche proprie della interazione agiscono sulla persona ( cioè sulle sue rappresentazioni interne). Intervenendo sulla forma è, quindi, possibile agire sui contenuti.
A volte tutto ciò funziona, a volte no. Il nostro compito rimane quello di offrire possibilità perturbative al sistema, valide, meno valide o del tutto sbagliate, prescindendo dagli esiti non sempre prevedibili del nostro operare.
Molti altri aspetti teorici mi convincono del modello sistemico, rispetto al quale riconosco una appartenenza che si è sviluppata e consolidata nel tempo e che forse, come per tutti i modelli, non dovrebbe diventare troppo forte e condizionante.
Sulla base di queste premesse, il mio intervento terapeutico tenderà ad orientarsi ora su un piano ora su un altro, o su tutti i piani contemporaneamente, nella consapevolezza che il mio specifico operare su un determinato livello avrà delle influenze anche sugli altri livelli e a sua volta ne sarà influenzato. Con la somministrazione di un farmaco, ad esempio, non si interagisce solo con l'aspetto biologico del problema ma si innescano una serie infinita di processi e di fantasie anche sul piano intrapsichico e della relazione che finiscono inevitabilmente col condizionare il farmaco stesso, nella sua dimensione più strettamente biologica ( se prendo il farmaco sono più malato, se prendo il farmaco sono più dipendente, se prendo il farmaco vuol dire che da solo non ce la posso fare, se è il farmaco che mi guarisce allora io non valgo niente, se prende il farmaco allora io-madre, io-moglie, io-sorella non c'entro niente, non posso essere d'aiuto, non ho risorse, ma è il farmaco che mi sta aiutando o la psicoterapia, cosa succede quando smetto di prenderlo…).
Credo che ciascuno di questi livelli, biologico, psicologico e sociale, rappresenti una sorta di chiave d'ingresso preferenziale al sistema e che orientarsi su un livello, piuttosto che su un altro ( sulla base dell'esperienza, dei vissuti e delle percezioni profonde che la relazione con l'altro ti suscita), comporti inevitabilmente una scelta per il terapeuta e, di conseguenza, delle grosse responsabilità sia sul piano professionale che su quello umano. Quanti farmaci prescritti, superflui e dannosi, e quante psicoterapie che si protraggono ostinatamente nel tempo, inutili e penose, sulla base di scelte delle quali, spesso, rischiamo di rimanere prigionieri all'interno di un processo che tende ad autoconvalidarsi all'infinito ( ho recentemente conosciuto una paziente nel reparto di Oncologia che l'anno scorso, rivoltasi ad uno psichiatra per un problema di svogliatezza, stanchezza e abbassamento del tono dell'umore venne sottoposta per mesi ad una psicoterapia di coppia e ad una terapia anti-depressiva, salvo poi scoprire, con un anno di ritardo, che il suo era il quadro sintomatico di esordio, molto frequente tra le altre cose, di una neoplasia del colon. Una parentesi che non vuole essere in alcun modo una critica nei confronti di un collega, probabilmente avrei fatto lo stesso errore, ma che vuole sottolineare le enormi responsabilità professionali ed umane che le scelte terapeutiche comportano in un campo tanto complesso come quello del disagio mentale).
Sempre a proposito di modelli di riferimento, sono profondamente convinto che ogni sistema umano sia naturalmente dotato di capacità autopoietiche e autoriparative. E allora gli psicoterapeuti che esistono a fare. Credo che la relazione terapeutica debba avere fondamentalmente un significato perturbatorio, finalizzato a favorire quella che dovrebbe essere l'evoluzione spontanea del sistema. Il "growth factor" direbbe Haley, vale a dire quel fattore di automaturazione spontanea che esiste in ogni paziente ( ma io aggiungerei in ogni sistema che interagisce a qualche livello col paziente). L'evoluzione in quanto spontanea non è costante e continua nel tempo ( e quindi non è neanche del tutto prevedibile), e questo caratteristica tende a riproporsi non solo nei momenti di crisi o di stallo del sistema ma anche all'interno dello stesso processo terapeutico.
Il sistema terapeutico deve essere il più ricco possibile di informazioni ( informazioni raccolte e informazioni proposte), cioè di un numero via via crescente di alternative (agibili e condivisibili dall'intero sistema) e di potenzialità evolutive per tutti i membri che ne fanno parte, terapeuta incluso. In questo senso cerco di portare avanti una terapia coinvolgendo tutti i sistemi che mi sembrano strategicamente più rilevanti sul piano relazionale, a seconda della fase del processo terapeutico, partner, figli, famiglia nucleare, famiglia allargata, amici, cioè tutte quelle persone che possono offrire nuove informazioni e offrire degli spunti trasformativi sul piano reale e concreto. In alcuni casi, posso ritenere valido, già di per sé, lo spazio interattivo della relazione col paziente, a condizione che tale spazio sia sufficientemente creativo da permettere ai partecipanti di costruire e condividere, su un piano puramente simbolico, un processo potenzialmente trasformativo. Credo che la costruzione di una relazione sia un intervento che in qualche maniera agisce anche sul mondo intrapsichico del paziente. Nel senso che le caratteristiche proprie della interazione agiscono sulla persona ( cioè sulle sue rappresentazioni interne). Intervenendo sulla forma è, quindi, possibile agire sui contenuti.
A volte tutto ciò funziona, a volte no. Il nostro compito rimane quello di offrire possibilità perturbative al sistema, valide, meno valide o del tutto sbagliate, prescindendo dagli esiti non sempre prevedibili del nostro operare.
Molti altri aspetti teorici mi convincono del modello sistemico, rispetto al quale riconosco una appartenenza che si è sviluppata e consolidata nel tempo e che forse, come per tutti i modelli, non dovrebbe diventare troppo forte e condizionante.