Per Psicofarmaci intendiamo quel gruppo di farmaci che agendo sui meccanismi e sulle strutture del Sistema Nervoso Centrale, producono effetti su alcuni sintomi psichici. Sono, in altre parole, farmaci come tutti gli altri, ma in grado di arrivare al cervello, di agire sui recettori e sul metabolismo di alcuni neurotrasmettitori e quindi di modificare in senso positivo l'intensità e la frequenza di ansia, di modulare il tono dell'umore, di calmare uno stato di agitazione, di paura, di irritabilità. Come tutti i farmaci, in altre parole, anche gli Psicofarmaci costituiscono importanti - e a volte fondamentali - risorse per la cura di quei disturbi psichici che possono generare profonda e intensa sofferenza nelle persone che ne sono affette. Ovviamente, come per tutti gi altri farmaci, presentano anche aspetti negativi, come effetti collaterali più o meno sgradevoli o specifiche controindicazioni. Gli Psicofarmaci possono dare sollievo, ridurre o eliminare alcuni sintomi, aiutare il paziente a regolare meglio le proprie emozioni, o ad affrontare determinate situazioni sostenuto da uno stato di minore sofferenza, ma ovviamente non risolvono i problemi esistenziali delle persone, né il loro modo di pensare o di vedere le cose, né le esperienze negative che continuano a condizionarli. In altre parole, se è vero che possono offrire un aiuto prezioso per affrontare i problemi, è altrettanto vero che non sono così potenti (per fortuna !!!) da poter “cambiare la personalità” di un individuo, né di renderlo “una persona diversa” da quella che è. La prescrizione di uno psicofarmaco è un atto medico che presuppone una alta competenza da parte dello specialista, una attenta valutazione del paziente e degli obiettivi da raggiungere, e soprattutto una assoluta personalizzazione della prescrizione. In questo senso non esistono gli psicofarmaci buoni per tutti, ma un determinato farmaco per quella particolare persona e per quello specifico problema. E lo psicofarmaco va sempre prescritto solo quando medico e paziente lo ritengono necessario, all’interno di un rapporto di completa fiducia. Psicofarmaci e Psicoterapia non sono necessariamente interventi alternativi, anzi molto spesso i primi possono rappresentare una scelta iniziale, che permette al paziente di cominciare al meglio un percorso di psicoterapia e trarne il massimo vantaggio. Per questo è importante un intervento il più possibile concordato e coordinato, tra le diverse figure specialistiche, secondo quel modello di terapia integrata che oggi sembra essere in grado di garantire i maggiori successi terapeutici anche nelle situazioni più difficile e complesse. Cristiano Ceccarelli Per chi si affaccia per la prima volta nel campo della psicologia, è certamente molto difficile sapere cosa doversi aspettare da una psicoterapia. La psicoterapia è un processo che dovrebbe avere fondamentalmente un significato perturbatorio, finalizzato a favorire l'evoluzione spontanea, ovvero l'automaturazione di un individuo/coppia/famiglia che sta affrontando un periodo di disagio e di sofferenza psichica. Tutto ciò potrebbe rendere più vulnerabile il soggetto che chiede aiuto : col proprio terapeuta ad esempio si possono condividere cose mai condivise prima, all'interno di una relazione basata sulla fiducia, e tutto ciò rende ancora più complessi i criteri di scelta di un professionista piuttosto che di un altro. Quindi, come potete sapere se il vostro terapeuta è veramente un bravo professionista e se la terapia è impostata correttamente ? Queste sono solo alcune delle tantissime variabili esistenti, probabilmente neanche tra le più importanti ma sicuramente utili per cercare di semplificare un aspetto, la scelta del terapeuta, di per sé molto complesso da affrontare per chi sente il bisogno di chiedere un aiuto psicologico. Un terapeuta dovrebbe collaborare con voi per raggiungere un determinato obiettivo, partendo dalla condivisione di una storia che in quanto condivisa potrebbe sembrarvi, alla fine, anche molto diversa rispetto a come l'avevate percepita sino a quel momento (si dovrebbe passare, quindi, dalla narrazione di una storia alla co-costruzione di una storia). Piuttosto che dirvi quali sono gli obiettivi da raggiungere o cosa dovreste fare nella vita, il vostro psicoterapeuta dovrebbe lavorare con voi per aiutarvi a identificare i vostri obiettivi ed i vostri progetti. Un buon terapeuta, infatti, non dovrebbe dire ad un giovane che ha bisogno di tornare a scuola. Al contrario, egli dovrebbe lavorare con il suo paziente per capire se frequentare e completare la scuola è veramente il suo obiettivo attuale, cioè se ciò sia funzionale al bisogno (che noi tutti avvertiamo) di dare un senso più gratificante e soddisfacente alla sua esistenza. Il paziente, alla fine, è l’unico che sa veramente cosa è meglio per lui/lei, ma potrebbe aver bisogno di un po’ di aiuto, e alla volte anche di un po' di tempo, per arrivarci, ed il terapeuta dovrebbe facilitare questo percorso, sostenendolo rispetto alle sue paure e, nel contempo, invitandolo a sfidarle. Un bravo psicoterapeuta dovrebbe trasmettere serenità nel corso della seduta, permettendo così anche al paziente di sentirsi a proprio agio e di costruire un legame di completa fiducia . Un bravo terapeuta dovrebbe essere in grado di accettare le critiche e sapere gestire in modo efficace il conflitto o il silenzio, che possono crearsi nella relazione. Un buon psicoterapeuta dovrebbe avere sempre a cuore il vostro migliore interesse, in modo che qualora non stiate facendo progressi si possa parlare anche di questa fase di arresto nella terapia, degli ostacoli che state incontrando, facendo ipotesi e cercando di trovare delle soluzioni insieme, con serenità ma anche con la giusta obiettività che consenta, laddove anche questi tentativi siano destinati all'insuccesso, di valutare l’opzione, certamente molto dolorosa e difficile da gestire sia per il terapeuta che per il paziente, di proseguire il percorso con un altro professionista, il cui intervento potrebbe rilevarsi maggiormente efficace nella risoluzione delle difficoltà del paziente, superando da una parte le paure abbandoniche e dall'altra il pericoloso senso di frustrazione che spesso accompagna il riconoscimento dall'altra dei propri limiti. Cristiano Ceccarelli NON ABBIAMO A NOSTRA DISPOSIZIONE, NEL DIFFICILE CAMPO DELLE RELAZIONI D'AIUTO, STRUMENTI COSI’ POTENTI E PRECISI CHE CI PERMETTANNO DI AIUTARE CON PRECISIONE L’ALTRO (SECONDO UNA LOGICA LINEARE O DI CAUSA - EFFETTO). POSSIAMO, PERO’, PROVARE A COSTRUIRE UNA SERIE DI OPPORTUNITA’ CHE CHI CI CHIEDE AIUTO PUO’ COGLIERE (OPPURE NON COGLIERE) RITROVANDOSI IN UNA SITUAZIONE MAGGIORMENTE FAVOREVOLE PER USCIRE DA UNA SITUAZIONE DI CRISI O DI DISAGIO LE COMPETENZE TECNICHE E PROCEDURALI SONO UNA CONDIZIONE NECESSARIA MA NON SUFFICIENTE A GARANTIRE UN PROCESSO D’AIUTO. DIVENTA INDISPENSABILE IN QUESTO LAVORO SAPER METTERE IN GIOCO LE QUALITA’ UMANE. NON SI PUO’ “CURARE” IL DISAGIO DI UNA PERSONA MA CI SI PUO’ “PRENDERE CURA “ DI UNA PERSONA , INTERVENENDO IN UNA DETERMINATA SITUAZIONE DI DISAGIO . OGNI RELAZIONE D’AIUTO VA INTESA COME OPPORTUNITA’ E NON COME CURACRISTIANO CECCARELLI La nostra società si è dovuta confrontare negli ultimi 50 anni con importanti cambiamenti culturali, economici e sociali, che hanno determinato profonde modificazioni nell' attribuzione di un significato alla nostra stessa vita.
L'uomo colpevole sembra avere lasciato il posto all'uomo tragico: nel fare rientro a casa ci chiudiamo la porta alle spalle e con un sospiro di sollievo pensiamo: anche oggi mi è andata bene, sono tornato a casa sano e salvo. Questa visione tragica della vita ha preso il sopravvento sull'uomo colpevole, che nel rientrare a casa, invece, si interrogava su quanto avesse fatto nella giornata appena conclusa e su cosa di meglio , o di più, avrebbe potuto fare ( con i colleghi di lavoro, con gli amici, con lo sconosciuto in difficoltà incontrato poco prima di fronte al portone). L'impegno, dunque, sembra essere stato sostituito dal disimpegno, da un approccio alla vita più centrato sui nostri individuali bisogni, o su quelli della nostra famiglia, che sentiamo di dover proteggere e tutelare ( il che è del tutto comprensibile) anche a scapito dei bisogni di chi ci circonda. Il mondo esterno non suscita più curiosità, né interesse né tantomeno il desiderio di impegnarsi per modificarne almeno una piccola parte: è percepito come qualcosa dal quale proteggersi in quanto incute timore e il nostro disimpegno, assumendo una valenza protettiva, in qualche modo ci immunizza dai sensi di colpa, che hanno caratterizzato altri periodi storici della nostra società. Di fronte a quello che appare un cambiamento ormai oggettivo, del quale non possiamo fare altro che prenderne atto, e tralasciando riflessioni socio-antropologiche non di mia competenza, mi ritrovo spesso a riflettere su aspetti maggiormente legati ai modelli educativi che inevitabilmente forniamo alle nuove generazioni, considerando che un valido processo di individuazione ( in altre parole la costruzione di una tua specifica identità), non può prescindere dall'avere contestualmente sperimentato una piena appartenenza al mondo nel quale viviamo. Le due cose vanno necessariamente di pari passo, e senza l'appartenenza i processi di individuazione lasceranno spazio non tanto alla maturazione del singolo individuo ma semmai alla nascita di un nuovo individualismo, che per quanto possa avere una valenza protettiva inevitabilmente limiterà la nostra dimensione esperienziale, il nostro bagaglio di conoscenze, all'interno di una bolla che ci rassicura ma che rischia di condurci ad una vita asfittica e forse anche poco “vissuta”. Cristiano Ceccarelli qui per modificare. A 80 anni dalla sua morte alcune riflessioni su quello che ci ha lasciato in eredità il “padre” della psicoanalisi:
Innanzitutto il concetto di inconscio che Freud considerava la sede di fantasie erotiche che la persona non poteva ammettere alla coscienza, con la conseguente tendenza a reprimerle anche in relazione ad un contesto culturale che agli inizi del 19° secolo era caratterizzato da una società borghese, fortemente repressiva e sessuofoba. Sebbene questo concetto abbia perso molte delle proprietà che inizialmente gli vennero attribuite, in quanto il campo dell'inammissibile nella società attuale si è notevolmente ridotto, rimane in psicoterapia l'importanza di un inconscio da intendersi oggi come il luogo dove dimorano gli automatismi di pensiero e gli schemi di relazione, dei quali non abbiamo imparato a essere del tutto consapevoli, tanto da subirne un pesante condizionamento nella vita reale. Altra eredità importante di Freud: il concetto per cui quello che accade al bambino nei primi anni di vita lo plasma per il resto dell’esistenza. Se oggi noi psicoterapeuti siamo così attenti a raccogliere informazioni su episodi della prima infanzia e della fanciullezza dei nostri pazienti lo dobbiamo a Freud: è ormai ampiamente provato, infatti, che le esperienze traumatiche, la violenza, l' abuso, la trascuratezza estrema nella relazione di accudimento genitoriale, possono generare nella vita adulta importanti disagi psicologici sino alla comparsa di disturbi psichiatrici conclamati. Un altro concetto che ereditiamo è quello relativo ai “meccanismi di difesa” che secondo Freud sono una sorta di scudo che la nostra mente sviluppa per proteggersi dal dolore psicologico e che tutt'ora rivestono una grande importanza nella psicoterapia soprattutto laddove determinino un effetto paradosso: questi meccanismi, in effetti, se da un lato riducono l’angoscia, dall'altro possono generare più sofferenza e maggiori difficoltà adattative. Oggi la psicoterapia focalizza molto il suo intervento sui meccanismi di difesa “maladattattivi”, all'interno di un percorso mirato a valorizzare i meccanismi difensivi più evolutivi e cercando nel contempo di ridurre quei meccanismi che in definitiva si oppongono ad un nostro reale cambiamento. Infine, vorrei ricordare i concetti di transfert e controtransfert, sempre di grande importanza nella psicoterapia in quanto ciò che il paziente costruisce con il proprio terapeuta è spesso condizionato da schemi di relazione costruiti in precedenza con le figure di attaccamento primario: “…. Se mio padre mi considerava un fallito, anche il terapeuta adesso penserà questo di me ....” Rispetto al controtransfert sarà compito, invece, dello stesso terapeuta comprendere e gestire le reazioni riflesse che possono riattivarsi all'interno della relazione terapeutica e che hanno a che fare con tutti quei fantasmi del passato che risiedono nelle sua mente e che l'incontro con un determinato paziente può rievocare in lui. Insomma, una eredità importante quella che ci ha lasciato Freud, che merita tutt'ora di essere riconosciuta e ricordata, anche se molte cose, a partire dalla nostra società, sono nel frattempo cambiate e conseguentemente la stessa psicoanalisi è oggi profondamente diversa rispetto a quella che si praticava sino a qualche decennio fa. L’adozione rappresenta un processo complesso, dove la genitorialità e la filiazione
sperimentano percorsi alternativi . L’adozione, infatti, rientra tra gli eventi non normativi del ciclo vitale di una famiglia, eventi che richiedono la capacità di profonde riorganizzazioni interne del gruppo familiare. Una persona adottabile ed una famiglia adottante costituiscono, infatti, due mondi sconosciuti che entrano in rapporto tra loro. L’adozione è l’incontro di due mancanze : la relazione primaria venuta a mancare per il bambino, da una parte, e l’incapacità procreativa per la coppia genitoriale dall’altra. La genitorialità non è espressione di un evento biologico ma si fonda su un legame affettivo che deve essere costruito nel tempo ed è basato sulla RECIPROCITA’ della scelta . La consapevolezza della scelta adottiva si realizza quando è chiara per la coppia adottante la differenza tra: il desiderio di avere un figlio e il bisogno di avere un figlio 1) Nel desiderio di avere un figlio immagineremo un bambino reale, con la sua storia, il suo passato, i suoi traumi, i suoi limiti, la sua genetica. 2) Nel bisogno di avere un figlio saremo inevitabilmente portati a legarci ad bambino fantasticato, destorificato, con il quale immaginiamo di poter rinascere a nuova vita insieme, colmando i reciproci vuoti dolenti. La difficoltà maggiore (per il bambino) consiste non solo nel dover accettare la perdita delle precedenti figure di attaccamento, ma soprattutto nel dover riorganizzare il legame di attaccamento e dirigerlo verso nuove figure, con gli inevitabili sentimenti di colpa che in relazione a questa scelta si svilupperanno. Il ricevere aiuto, inoltre, potremmo pensare (sbagliando) che debba essere naturalmente percepito come una azione che produce benefici, ma, in realtà, un aiuto non richiesto potrebbe turbare piuttosto che comportare benefici per il ricevente. Soprattutto laddove il bambino non abbia compiutamente elaborato i vissuti di separazione e di perdita che hanno preceduto la stessa adozione. Purtroppo, però, non sempre i genitori adottivi riescono ad interpretare correttamente il comportamento, che almeno inizialmente potrà essere anche ostile nei loro confronti, tanto da essere portati a ritenere il bambino “difficile” oppure al contrario a ritenersi incapaci del loro compito, iniziando a disinvestire sulla relazione, con inevitabili ripercussioni sul bambino che vivrà un secondo “lutto”. Per questo motivo la famiglia adottiva dovrebbe essere composta da persone con una buona dose di autostima che non necessitino di continue rassicurazioni narcisistiche dai figli. Si è portati naturalmente a pensare che il bambino sia in grado di capire che la nuova situazione (quella adottiva) sia migliore per lui rispetto alla vita precedente, e che quindi egli non possa far altro che essere contento di avere incontrato delle persone più disponibili alle sue necessità I bambini invece, specie i più piccoli, vivono in un "hic et nunc" pressoché infinito, un eterno presente che impedisce loro una proiezione nel futuro; non sono ancora in grado , in definitiva, di comprendere i vantaggi futuri che potenzialmente potranno essergli garantiti dall'appartenenza ad un nuovo nucleo familiare. La filiazione adottiva può avere successo solo quando i genitori scelgono di adottare ed il bambino riesce a interiorizzare la scelta di essere adottato, quando la relazione adottiva nasce a partire da un'attitudine (l'amore incondizionato) da parte dei genitori adottivi, quando la relazione adottiva viene vissuta dai genitori come un modo di avvicinarsi al figlio adottivo senza memoria e senza desiderio. Senza la memoria del mio passato che mi ha visto impossibilitato nel procreare e senza il desiderio che la vita mi debba in qualche modo “risarcire “ proprio per questo motivo, magari attraverso un figlio adottivo. Cristiano Ceccarelli Il titolo dell'intervento, volutamente “provocatorio”, è nato dalla necessità di fornire alcune precisazioni rispetto a questo delicata fase della vita dei nostri figli, che sempre più spesso noi genitori affidiamo alle “ cure” degli specialisti.
L’adolescenza, dal latino “adolescere” che significa “crescere”, è la fase della vita durante la quale l’individuo conquista le abilità e le competenze necessarie ad assumersi le responsabilità relative al futuro stato di adulto. Questo periodo di transizione dallo stato di bambino a quello di giovane adulto, prevede una costante evoluzione e continue trasformazioni che spesso, dall’esterno, vengono scambiate per volubilità, instabilità, squilibrio. A volte questi aspetti possono essere interpretati erroneamente come elementi patologici ma di fatto il tasso di incidenza dei disturbi psichici negli adolescenti riguarda una percentuale pari al 17%, un valore relativamente basso, soprattutto se confrontato col tasso di incidenza dei disturbi psichici nella popolazione adulta pari al 38% . Nel corso dell'adolescenza gli interrogativi e i dubbi su di sè, le trasformazioni del proprio corpo, i conflitti con i genitori rappresentano dei momenti di passaggio che non costituiscono necessariamente una patologia, almeno non sempre, anzi potremmo considerarli del tutto fisiologici, nell'ambito di un difficile processo di attribuzione di senso che l'adolescente deve compiere per capire che cosa sta accadendo nel suo mondo interiore e nella sua vita di relazione. E' necessario, quindi, che gli adulti imparino a tollerare questo difficile “equilibrio instabile”, tipico della adolescenza, con la giusta attenzione ma senza averne paura e , soprattutto, che aiutino i propri i ragazzi ad imparare ad ascoltare sé stessi, a codificare il loro universo emozionale e a comprendere le potenzialità del loro essere. Uno dei compiti fondamentali dell'educare , in fondo, è proprio questo: aiutare i figli a capire chi sono, a migliorare i processi di consapevolezza, secondo i principi propri della “ars maieutica” di socratica memoria. Le scelte relative al proprio futuro diventeranno per i nostri figli più semplici e naturali di quanto si possa immaginare, e lo stesso “equilibrio instabile” diverrà, nel tempo, un lontano ricordo, anche senza l'aiuto di uno specialista del campo, necessario solo laddove si percepiscano oggettivi e preoccupanti sintomi di un disagio esistenziale. Cristiano Ceccarelli - Ciao A., i tuoi genitori hanno fissato questo appuntamento perchè noi due potessimo parlare di quello che ti è successo a scuola, penso che quanto ti è capitato ti abbia fatto stare molto male, ma hai dimostrato di essere un bambino di grande intelligenza.
- In che senso....?- - G. ti ha dato dei pugni, giusto ? - Si, all'uscita di scuola, nel cortile. - E poi dei pugni sempre più forti, e quello che all'inizio sembrava solo un gioco, poi si è trasformato in qualcosa che tu non riuscivi più a capire, fino a quando ad un certo punto G. ti ha fatto veramente male e tu allora hai pianto (ma non vergognarti per questo) ed è solo in quel momento che lui si è fermato. - Si è così. Io ho cercato di difendermi ma lui è più grosso di me. - Lo so che lui è più grosso di te ma tu sei stato più forte di lui. - Lo dici solo per farmi stare meglio...e poi se uno è più grosso, è anche più forte. - E invece qui sbagli, tu sei stato più forte di lui anche se lui è più grosso di te e sai perchè... perchè al posto di restituirgli i pugni, magari il giorno dopo a scuola, quando sei tornato a casa tua gli hai scritto un messaggio : “... ciao G. ... ma perchè lo hai fatto... ?”. - E ti assicuro che G. questo messaggio non se lo aspettava proprio, per lui è stato più forte di un pugno , e infatti ti ha risposto dicendoti che in realtà non voleva farti del male, che stava solo giocando e poi ti ha detto una cosa ancora più importante... e cioè che nonostante tutto, voleva diventare tuo amico, e tu gli hai detto di sì.... - Ti sembra poco quello che hai fatto? - Non lo so, ho scritto quel messaggio senza pensare a tutte queste cose.... - Credimi quello che hai fatto è in assoluto il modo migliore per aiutare un amico, insegnargli a parlare una lingua diversa dalla sua, usando le parole al posto dei pugni, per fargli capire che la rabbia dobbiamo saperla controllare e gestire, per non diventarne schiavi. - Schiavi come i soldati prigionieri dei Romani ? - Esatto , proprio come loro, pensa che molti di loro, molti schiavi dei Romani, hanno preferito morire pur di non rinunciare alla libertà, perchè la libertà è una delle cose più importanti della vita. E ricordati un'altra cosa... - Che cosa? Chi dà i pugni è meno libero di chi usa le parole. - In che senso....? Vedi scrivendo quel messaggio a G. sei riuscito a fargli capire una cosa importantissima, cioè che la sua rabbia può prendere una forma diversa dai pugni attraverso le parole, e che con le parole puoi dare un nome alla tua rabbia, puoi esprimerla e controllarla meglio, e questo significa essere libero e non più schiavo.... come i prigionieri dei Romani. - La rabbia, ad esempio, puoi condividerla con un amico, usando le parole per raccontargli tutto ciò che nella tua vita non ti rende esattamente sereno e felice, e così facendo , cioè dopo averne parlato con un tuo amico ( questo si chiama condividere), la tua rabbia ti diminuirà , e forse addirittura anche la tua vita ti sembrerà un po' più bella. - Non è possibile... - Ma allora dovrò difendermi a scuola sempre così? - Si e no, nel senso che dovresti fare sempre così ma non posso assicurarti che le tue parole riusciranno sempre a risolvere tutti i problemi di questo tipo, potrebbe capitare in qualche situazione, poche spero, che dovrai usare anche i pugni per difenderti, ma solo dopo le parole, perchè le parole sono sempre più potenti dei pugni, non scordarlo mai. - Sono stato così bravo allora? - Si, sicuramente molto più bravo di quanto io mi aspettassi, ecco perchè, noi grandi abbiamo tanto da imparare da voi bambini. - Ok, questa mi piace e lo dirò alla professoressa che ci mette sempre tanti compiti il sabato e la domenica, perchè secondo lei siamo noi bambini che abbiamo ancora tanto da imparare....!!!! - Bene , mi sembra una buona idea......ciao A. continueremo questa chiacchierata la prossima settimana. Cristiano Ceccarelli L'ALLARMANTE FENOMENO DELLA CRIMINALITA' MINORILE IN UNA GENERAZIONE CHE NON HA PIU' DESIDERI.9/16/2019 Faccio parte di una folta e sempre più numerosa schiera di genitori che ormai da qualche tempo, al mattino, si appresta a leggere la cronaca locale del Vostro giornale con una certa apprensione: ....e questa volta che sarà successo di nuovo, quanti altri ragazzi coinvolti in furti o rapine, quanti altri episodi di violenza, quante altre storie di droga finite male ? Insomma, che sta succedendo nelle nostre strade, nei locali, nei luoghi di ritrovo giovanile, la sera o la notte mentre noi adulti proviamo a dormire ? Ho spesso la fortuna di incontrarli, questi ragazzi “devianti”, nel mio lavoro di psicoterapeuta, che mi concede uno straordinario privilegio: poter accedere ad aspetti della loro vita e del loro mondo interiore per lo più inaccessibili alla maggior parte dei genitori. E mi convinco sempre di più che, sebbene il disagio giovanile tragga le sue origini da molteplici fattori, uno fra tutti, quello che più direttamente mi impressiona e coinvolge, come padre e come terapeuta, e il constatare l'assoluta incapacità da parte di questi ragazzi di provare dei desideri. Il desiderio nasce quando si avverte la mancanza di qualcosa; l'etimologia latina del nome è certamente più incisiva di qualsiasi altra spiegazione: ” de-sideris “, ovvero un cielo privo di stelle, con il conseguente senso di vuoto che ne deriverebbe ed il forte desiderio che tutto torni come prima. Se non si sperimenta una mancanza non si può imparare a desiderare, ed è questo che traspare dalle vite dei nostri ragazzi: vuote e noiose, in cui le motivazioni e i progetti non si attivano in quanto le assenze e le mancanze sono state attentamente riempite e colmate da noi genitori: del resto il motorino ( o la macchina usata) ce l'hanno tutti i suoi amici, così come il cellulare, i soldi per il week end, quelli per il campeggio estivo e per il viaggio a Capodanno....può mio figlio essere da meno, può mio figlio soffrire per questa mancanza, come capitò a me alla sua età, ma io sono diventato genitore per fare meglio di mio padre, che per il primo motorino mi disse di arrangiarmi ( e così fu, qualche lavoretto per i vicini di casa, qualche soldo risparmiato ma alla fine ce la feci....)
“... Ma dimmi tu nella vita ce l'hai un desiderio ?...” A questa domanda i ragazzi che ho avuto modo di seguire reagiscono in maniera scomposta, contrariati, quasi si trattasse di una provocazione, nel migliore dei casi ti rispondono con un : “non lo so, in realtà è la prima volta che qualcuno mi fa questa domanda, non ci avevo mai pensato prima....” . Se non impariamo come genitori a lasciare che i nostri ragazzi percepiscano una mancanza, evitando di accontentarli se non subito, poco dopo, o al massimo a Natale quando arriva la tredicesima, priveremo i nostri figli di un elemento fondamentale per la loro crescita: la capacità di desiderare qualcosa e quindi la motivazione all'impegno ed alla fatica, funzionali al raggiungimento di un obiettivo, con il conseguente rischio che nella loro vita subentri la noia, la routine, il tentativo di riempire questo vuoto esistenziale con la trasgressione e l'eccesso, con la droga e la violenza. Potremo aiutare i nostri figli a crescere meglio, quando impareremo come genitori a tollerare la sofferenza che essi manifesteranno quando li lasceremo da soli a guardare il “cielo privo di stelle”, probabilmente ci sentiremo egoisti ed insensibili, forse anche “cattivi” come abbiamo spesso pensato dei nostri padri.... ma da soli e senza le stelle, è probabile che i nostri ragazzi impareranno a dare un senso alla loro vita, dovendosi confrontare con un mondo che non è esattamente come loro vorrebbero e forse, a quel punto, riusciranno anche ad impegnarsi per farlo tornare come prima, o semplicemente diverso, senza sentire più la noia e la routine di una vita priva di obiettivi e di desideri e dalla quale sembra abbiano avuto già tutto. Cristiano Ceccarelli Medico Psicoterapeuta |
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Dicembre 2019
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